INEBRIATI DI LUCE

Carissimi,

è l’ultima lettera dal deserto perché stamattina, appena uscito dalla tenda, ho visto che il Sole di Pasqua (“Sfolgora” dice l’inno delle Lodi!) stava facendo fiorire anche il deserto del Covid-19 che ci ha tenuto in apprensione e divisi, solitari, monaci di questo grande monastero che era diventato il mondo.

Mi sono inginocchiato e ho baciato la terra come facevano i nostri nonni al suono delle campane che “scioglievano” il Gloria”, mi sono sempre chiesto se a sciogliersi fossero le campane le cui corde venivano letteralmente legate (ho visto questa scena nella mia infanzia) o i loro cuori intristiti e induriti dal dolore, le campane o le bandiere, o addirittura il grande drappo viola che copriva interamente l’altare che, nella liturgia preconciliare, vedevamo cadere a terra perché sciolto al tripudio del “Gloria”, delle campane e campanelli, dei ceri e dei fiori, della statua del Cristo Risorto che sembrava voler prendere il volo, come un missile, dal coperchio di marmo della Custodia.

Ho avuto male agli occhi tanto era il bagliore… del sole? Del Cristo glorioso? Del deserto ricoperto dai fiori di manna? Avrei voluto dir Messa subito, ma la Cattedrale era chiusa, un passante mi ha preso per pazzo. Non furono chiamate così le donne in quell’alba della Pasqua quando gettarono a terra gli aromi e cominciarono a correre? Non furono tacciati per ubriachi gli apostoli quella mattina di Pentecoste quando uscirono dal Cenacolo cantando la gioia?

È stato allora che mi sono ricordato di questo testo del Padre Pierre Teillhard De Chardin: “Poiché, ancora una volta, Signore, non ho né pane, né vino, né altare, mi eleverò al di sopra dei simboli fino alla pura maestà del Reale, e io, tuo sacerdote, ti offrirò sull’altare di tutta la Terra il lavoro e la pena del mondo. Il sole ha appena illuminato laggiù la frangia estrema del primo Oriente. Ancora una volta, sotto la tovaglia mobile dei suoi fuochi, la superficie vivente della terra si sveglia, freme, e ricomincia la sua spaventosa fatica. Io metterò sulla mia patena, mio Dio, l’atteso raccolto di questo nuovo sforzo. Verserò nel mio calice il succo di ciascun frutto che oggi verrà spremuto.”

Il sepolcro vuoto e le bende e il sudario ben piegate (segno di Uno che sia uscito con comodo mettendo tutto a posto!) ci pone per le strade del mondo alla ricerca di Lui che ci ha dato appuntamento in Galilea. Se fosse dipeso da noi avremmo costruito una cattedrale sul Sepolcro (certo è stato fatto, ed è costato tanto sangue, ma è vuoto!), ma il Risorto ci dà appuntamento all’aperto, in una regione ampia quanto il mondo, ai confini di tutte le terre sacre perché la Galilea è giudicata spuria dall’ortodossia, campo dei gentili, linea incerta. “Tornare in Galilea” è rientrare nella storia, riprendere il Vangelo daccapo, leggere e rileggere finché non ne avremo gli occhi consumati e chiedere ai passanti, interrogare uomini e donne, scambiarci con amore il dono della fede come un pane.

Carissimi, nessuna cronaca potrà raccontare a quelli che verranno la fatica di gettare l’ancora nella Pasqua 2020 senza perdere la fede, nessuna foto o articolo di giornale potrà fedelmente dire quanto sia costata questa Quaresima, quante tempeste abbiamo dovuto affrontare per non affondare, come uomini innanzitutto, e poi come credenti e preti… Nessuno saprà dell’angustia delle chiese chiuse, dei nostri presbiteri deserti, della fame insaziata della nostra gente, dei fiori comprati al mercato nero come la rosa di Maroncelli nel carcere dello Spielberg. “I figli chiedevano pane, ma non c’era chi gliene desse”: questa parola del profeta ci è pesata sul cuore e mai l’abbiamo capita come ora in un lungo digiuno eucaristico che ha disseccato le falde della fede… Ma ora è passato e non vogliamo essere ricordati come eroi, semplicemente come uomini che hanno accettato di camminare con gli altri in un tempo difficile.

Padre Teillhard ci insegna a fare di ogni forza e debolezza, di ogni succo e lacrima, di ogni materia del micro e macrocosmo, offertorio per una Messa sul mondo. Come pesavano le patene e i calici in questi giorni del Triduo, quanto vasto era il dolore, profonda e senza sponde la disperazione che abbiamo dovuto collegare al grido di Cristo sulla Croce. Ma ora “è tutto passato” lo diciamo a noi e a tutti come la parola magica che le mamme utilizzano per i bambini che si sono svegliati in preda a un incubo.

“Il mio calice e la mia patena, queste sono le profondità di un’anima largamente aperta a tutte le forze che, in un istante, si innalzeranno da tutti i punti del Globo e convergeranno verso ciò che si muove all’interno della materia oscura- perché, irrimediabilmente, riconosco in me ben più di un bambino del Cielo, un figlio della Terra- questa mattina io volerò col pensiero sui luoghi elevati, carichi di speranza e di miserie di mia madre; e là –forte di un sacerdozio che Tu solo, io lo credo, mi hai donato – su tutto ciò che, nella Carne umana, si appresta a nascere o a morire sotto il sole che sorge, io invocherò il Fuoco” scrive ancora Teillhard De Chardin.

È il Fuoco dello Spirito, un’epìclesi sul mondo, che poveramente e solennemente ho invocato per voi e per tutti, per i lontani e i vicini, per i poveri e per i ricchi. “L’amore vincerà” recita lo striscione che campeggia sulla balconata dell’episcopio, ma mi accorgo che è già superato perché non è più una promessa, ma una certezza: l’Amore ha già vinto!

Per questo smetto di scrivere e di tediarvi, finiscono qui le “lettere dal deserto”, un ingenuo tentativo (patetico?) di raggiungervi, di incoraggiarvi a resistere, di gettare ponti di luce nella notte oscura, “l’ho fatto tanto per fare, ma era per non morire” canta Ivano Fossati. Non so se ci incontreremo, e se ci riconosceremo per le strade dove Lui ci lancia come spermatozoi in cerca di vita, non importa, “ora Lui deve crescere ed io diminuire”. Santa Pasqua a tutti e non abbiate paura di scottarvi con il Vangelo di oggi. I panettieri si riconoscono dalle mani bruciate. Vi benedico.
+ Arturo Aiello
Domenica di Pasqua, 12 Aprile 2020