(articolo pubblicato su “Avvenire” del 3 novembre 2019)
La pagina di Avvenire di una Diocesi può nascondere qualche insidia: può diventare una vetrina in cui mettere in esposizione dei prodotti per incentivare la vendita e stimolare l’orgoglio di una comunità diocesana, può diventare una passerella di moda ecclesiastica e di nuovi ritrovati pastorali come in “Roma” di Federico Fellini, può trasformarsi in una foto cartolina in cui si stemperano le ombre e si accentuano le luci, può degradare in proposta subliminale della serie “guardate quanto siamo bravi!” o addirittura subdolamente essere usata per mandare messaggi e quotazioni alle altre Chiese della Metropolia o della Campania per partecipare alla gara in cui scegliere la reginetta o la prima in classifica nell’albo d’oro della nuova evangelizzazione. Consapevole di questi pericoli (se ne nascondono anche nel bene!), scelgo la via delle “lettere di comunione” che le Chiese antiche si scambiavano per raccontarsi, per raccontare l’opera di Dio, per incoraggiarsi, per mantenersi collegate e in… comunione tra loro. Scrivo all’Arcivescovo Felice, nostro metropolita, che porta sulle spalle il pallio come il pastore una pecora malata, ai fratelli Pasquale, Sergio, Mimmo e all’Abate Riccardo, ed in essi alle loro Chiese pellegrine, come noi, in tempi difficili. Pace a voi e dal Signore nostro Gesù Cristo. Non so le vostre, ma la Chiesa di Avellino che indegnamente servo, fa fatica ad uscire dal letargo del “si è sempre fatto così” e a decentrarsi rispetto al Signore Gesù, Signore della storia e nostro Salvatore. È Lui la nostra salvezza, ma, nel concreto, pensiamo che ci salvino le strutture, il trasformismo (il padre di questo termine, Giolitti, parlava di “Giri di valzer”), l’opinione del mondo che ci chiede sempre più servizi sociali ed un “fare” che rischia di svuotare completamente “l’essere”. L’arte e la fatica del discernimento non trovano tra noi molti tifosi, ci manca il tempo e, a furia di rispondere alle domande urgenti, manchiamo a quelle importanti. Tra noi ci sono pochi presbiteri ed operatori pastorali iscritti all’artigianato perché molti hanno scelto la via più facile dell’industria dove è già tutto pronto in kit per i campi scuola, per le novene o anche per l’omelia domenicale che è la stessa “dalle Alpi alle piramidi, dal Manzanarre al Reno” e, senza fatica, può essere riscaldata nel microonde. Gli artigiani, poveri illusi, ancora fanno pezzi unici, perdono tempo in relazioni pastorali dove ci si guarda negli occhi, conoscono i nomi dei parrocchiani e, all’occorrenza, benedicono il maiale prima del rito sacrificale cui segue una festa, gli industriali, invece, seggono alle loro poltrone e seguono tutti i gruppi e le iniziative dai loro studi superaccessoriati. Gli artigiani hanno le mani che profumano di pane e vino, di lacrime e danze, di fallimenti e vittorie insperate, gli industriali studiano sui vetrini il cristianesimo come fosse già un fossile. Non so da voi, ma qui la “conversione pastorale” sognata da Papa Francesco è ancora lontana e le chiese chiudono quando comincia la vita e gli orari delle messe sono rimasti immutati negli ultimi cento anni di solitudine. Non vorrei che pensaste che da noi ci siano solo problemi e lentezze perchè ci sono ancora preti e laici, diaconi e religiose che si spendono senza orari di ufficio, che vanno incontro al mondo con pochi ciottoli nella bisaccia come il giovane Davide incontro a Golia, che sono impastati nella storia della gente, e spalmano i loro giorni in una eroica fedeltà a Dio e all’uomo. Le associazioni sono molte, ma si fa fatica a metterle insieme perché è più facile fare il solista che cantare in coro, quando si tratta di sciogliere al vento labari e bandiere vengono tutte e sono facilmente riconoscibili dai loro colori di squadra, ma se li convochi per una iniziativa senza titoli di coda, al massimo si presenta l’Apostolato della Preghiera. La fatica della comunione tra gruppi e movimenti, tra parrocchie e foranie, tra giovani e anziani, tra un ufficio e l’altro, è l’impegno e la croce di ogni giorno. Non so da voi, ma qui pensiamo che se non lavoriamo sul senso di appartenenza alla Chiesa, al Papa, ai propri Pastori, alla Diocesi, alla Parrocchia, il cristianesimo rischia di sfaldarsi e polverizzarsi ulteriormente. Va da sé che questo ritrovato senso di appartenenza deve passare attraverso il ritrovamento della Domenica, giorno del Signore, con al centro la Celebrazione Eucaristica. Eravamo in tanti, ma siamo rimasti in pochi. Nutriamo grande speranza che il Signore non ci abbandoni e che i pochi pani, nelle Sue Mani, divengano abbastanza per sfamare tutti. Non neghiamo che l’immagine della Madonna di Montevergine, dall’alto del monte omonimo e dal suo trono, sia per noi di Avellino e per tutta l’Irpinia, un presidio sicuro cui volgere lo sguardo nei momenti in cui Satana tenta di scoraggiarci. Per tante cose non vediamo ancora chiaro e “le tenebre ancora ricoprono la terra e nebbia fitta avvolge le nazioni”. Fiduciosi innalziamo lo sguardo al Vittorioso Sconfitto che ci attira a sé e ci invita a camminare nella notte. A Lui onore e potenza nei secoli. Amen. Vi saluta la Chiesa di Dio che è in Avellino nonostante tutto ancora credente. Salutatevi tutti con il bacio santo e, se lo ritenete opportuno, rispondete a questa nostra con una lettera analoga che ci incoraggi. Basta anche un segnale di fumo dal monte Partenio, dal Taburno, dall’Acero, dal Dauno, dal Cervialto: sarà più efficace di un sms.
+ Arturo Aiello