A voi Medici e Infermieri, operatori sanitari e
componenti delle squadre del 118, e a quanti collaborano,
notte e giorno, per il servizio sanitario in questo tempo
di guerra, rivolgo un pensiero grato, un
incoraggiamento, una preghiera e una benedizione. Ieri
sera molte auto dei Carabinieri, dei Vigili del Fuoco,
della Polizia, dei Vigili Urbani, a fari accesi e a luci
lampeggianti hanno cinto d’assedio l’Ospedale “San
Giuseppe Moscati” di Avellino al suono dell’Inno di
Mameli diffuso ad alto volume. È stato un abbraccio
corale, una dolente serenata, per voi e per i malati, un
segno di vicinanza e di speranza, da parte delle Forze
dell’Ordine, per quanti combattono in questi giorni con
il pericolo del contagio eppure non si stancano di
prestare servizio ai “feriti”, fedeli alla propria missione.
In questi giorni più chiaramente e drammaticamente
comprendiamo che la professione è una vocazione, vi
nasce dentro come un imperativo, ma viene dall’alto, è a
servizio degli uomini e delle donne, ma ha un motivo
ispiratore “verticale”, è un segno di responsabilità nei
confronti della storia e di Dio.
Il nemico Covid-19 in pochi giorni ha messo in ginocchio
le nazioni, fatto collassare i nostri sistemi sanitari,
fermato la giostra del paese dei balocchi, fatto crollare le
borse, mietuto tante vittime, ma non ha fermato la vostra
dedizione e forza d’animo. Bravi! In questa tragedia che
ha investito tutti, voi costituite un baluardo di bene, un
canto alla vita, un abbraccio di fraternità, i crochi che
fioriscono nel freddo dell’inverno bucando anche la
neve. Dagli spalti delle nostre case, dei nostri campanili,
indici puntati verso il cielo, delle nostre chiese deserte ma
spiritualmente affollate di preghiera, noi facciamo il tifo
per voi che più da vicino, a nome della collettività,
prestate soccorso ai feriti gravi.
La vostra vita è stata stravolta da turni frenetici, da
messaggi trasmessi con gli occhi, da un andirivieni che
lascia tracce di stanchezza non solo sui volti arrossati
dall’elastico della mascherina, ma anche nei cuori
impauriti che sono chiamati a dare messaggi di speranza.
Non solo sul piano professionale, ma anche su quello
personale le vostre vite portano i segni di questa guerra
in atto. “Eccellenza, la mia vita è stata stravolta, quando
torno a casa la sera, stanco come uno straccio, vorrei
baciare i miei bambini, ma so che non posso farlo, non
devo…, vorrei abbracciare mia moglie, ma mi sento come
un appestato che non ha diritto neppure a un po’ di
tenerezza…, da quattro settimane dormiamo separati per
motivi prudenziali…, ma io non ho scelto il celibato…,
volevo fare il medico, non il monaco, sono un uomo
anch’io, non ho la stoffa dell’eroe!” mi diceva uno di voi
facendomi affacciare sulla paura che, insieme alla
stanchezza, possiate portare a casa anche il contagio.
Valerio, vent’anni fa ministrante della mia parrocchia ed
oggi medico apprezzato in cardiochirurgia, ieri sera non
ha voluto salutarmi per affetto e mi ha detto, oltre il
sipario della mascherina “su dieci contagiati, due sono
medici o infermieri!”
La guerra, ogni guerra, anche questa, mette a nudo
egoismi e grandezze, cuori gretti già morti e cuori
generosi che sanno essere “più grandi dell’amore”. So
che tanti di voi, tutti voi, mettete a repentaglio la vostra
vita ogni giorno diventando icona di una parola di Gesù
che afferma” Non c’è amore più grande di questo: dare
la vita per i propri amici”. Non sono vostri amici i tanti
che giungono nei nostri ospedali in crisi respiratoria o
positivi dopo l’esame del tampone, ma appartengono
alla famiglia umana, sono vostri fratelli e salvandone
anche uno solo salvate il mondo intero. Un proverbio
africano dice: “chi salva un uomo salva tutto il villaggio”
e voi operate, fin dai tempi di Ippocrate, decisi nel
difendere la vita, nel villaggio globale che è diventato il
mondo.
Siete sacerdoti della vita, siatelo anche quando, per un
paziente, i valori precipitano all’improvviso e vi “sfugge
di mano” cadendo nella morte. A voi è dato (in quel
momento i cappellani, secondo le disposizioni, possono
solo stare in preghiera davanti a Gesù Eucarestia!) di
porre un gesto di pietà, di chiudere gli occhi al defunto,
di recitare una preghiera, di fare con il pollice un segno
di croce sulla fronte che va raggelandosi, prima che il
cadavere sia lavato e “imbustato”. A voi e a nessun altro
è concesso di porre gesti e di dire parole che, in altri
frangenti, avrebbero posto sacerdoti e parenti, non
abbiate timore di fermarvi un attimo, siete voi in quel
momento, qualsiasi sia la fede del defunto, le sentinelle
della vita chiamate a celebrare anche l’atto estremo del
vivere. So che è difficile trovare parole da dire dinnanzi
alla rabbia della sconfitta, ma lo Spirito in voi ve le
suggerirà prima di voltare pagina, prima di passare a un
altro letto, a un altro paziente, a un’altra storia.
Vi raggiungo tutti e faccio una carezza a ciascuno, senza
guanti, perché sentiate vicino il vostro Vescovo, i vostri
preti, i tanti che pregano per voi. Vi raggiungo nel vostro
inferno che, da qui, da Piazza della Libertà, per il vostro
eroico servizio, mi pare già anticipo di paradiso. Forse
perché ha sapore di miracolo?
Vi benedico
Avellino, 23 marzo 2020
+ Arturo Aiello