Il motto episcopale di mons. Arturo Aiello Custos, quid de nocte? è tratto da un testo della Sacra Scrittura (Is 21,11): un interrogativo, cosa insolita e inusuale per uno stemma episcopale, in quanto la breve frase del cartiglio, secondo le regole dell’araldica, dovrebbe essere “assertiva” e indicare così il cammino e il programma per il ministero episcopale. Eppure, anche una domanda è ricca quanto o più del rispondere. L’uomo, negli ambiti della sua vita e anche della Chiesa, ama le risposte, ma non c’è risposta che possa eguagliare la preziosità di una domanda. L’uomo stesso è fondamentalmente una domanda, un cercatore di senso, di luce e di vita; e Dio è la risposta alla domanda dell’uomo.
Un educatore, un prete, anche un Vescovo deve essere un collezionista di domande e un suscitatore di domante.
Nel testo di Isaia la domanda viene rivolta a un “Custos”, una sentinella. Il Vescovo è un custode, posto a “vegliare” sulla fede, sulla speranza, sull’amore della Chiesa diocesana affidata alle sue cure. Il Vescovo-sentinella si prende cura della città, veglia sul sonno degli altri, sorveglia le mura per allertare del pericolo, per annunciare una Venuta e per custodire un Mistero. Nel silenzio della sua preghiera, nel digiuno della sua solitudine, nel fondo della sua notte raccoglie le domande del suo gregge, si fa cassa di risonanza dei desideri più alti dei suoi figli, li invita a pazientare, quando sono tentati di gettare la spugna.
E cosa si chiede alla sentinella nel testo di Isaia? Si domanda sulla durata della notte: “Quanto resta della notte?”. Questa domanda nasce dall stanchezza dell’attesa, dall’impazienza di chi vorrebbe tutto e subito, dalla inesperienza sui tempi lunghi della speranza. Non è forse questa la domanda fondamentale dell’uomo che anella alla felicità, ma anche la domanda del cristiano che attende la pienezza del regno di Dio, il ritorno glorioso del suo Signore?
La gente è stanca di soffrire e si chiede “Fino a quando?”; una madre attende il ritorno del figlio perduto e prega “Quanto ancora?”; i giovani anelano un mondo senza barbarie e si dicono “Quando sarà?”. Il vescovo nel suo ministero raccoglie tanti desideri, tanti sospiri, tante domande e le lancia in alto, verso le stelle sapendo che “la notte è avanzata e il giorno si avvicina”. Nella notte della storia il vescovo tiene alta la lampada della fede perché la speranza non si perde, perché l’amore non si affievolisca. È questo il compito del vescovo e dei presbiteri, ma anche di ogni credente è chiamato ad annunciare ai poveri la fine della sventura, agli esuli la fine della lontananza, alle persone sole la fine del gelo dell’isolamento.
Lo stemma, poi, rende visibile la pregnanza concettuale dei contenuti del motto. Nello scudo a tutto campo è raffigurata, su un orizzonte che si apre verso il mare, una scena con vari elementi in stretta relazione. Nella torre che campeggia sulla costa è nascosta la sentinella che attende l’aurora e tiene accesa la lampada della preghiera. Si tratta di una scena notturna che prelude l’aurora simbolizzata dalla stella che brilla in alto, nel cielo notturno. La stella è anche un richiamo alla Vergine Maria, stella del mattino, che è mistica aurora della Salvezza. La Torre raffigurata non è finzione, ma una delle torri di un castello a picco sul mare dove mons. Aiello ha trascorso la sua adolescenza nella penisola sorrentina alla scuola di Don Onorio Rocca. Oltre ad essere quindi simbolo di vigilanza la torre, come anche il mare raffigurato, è racconto e memoria delle radici spirituali e della formazione di mons. Aiello. Il mare, infine, è un richiamo al “mare di Galilea”, dove è colui che oggi è sentinella – il vescovo, il presbitero, il cristiano – era pescatore prima che passasse il Maestro cambiare i suoi progetti indicandogli di prendere in largo.